Onorevoli Deputati! - La persona umana è al primo posto nella gerarchia di valori fatta propria dalla Costituzione. Il valore «persona umana» costituisce la parte caratterizzante l'ordinamento giuridico, tanto da garantirne l'armonia e l'unitarietà d'intenti, e la famiglia nel suo aspetto sociale e nel suo riflesso giuridico si lega inscindibilmente all'esistenza, alla dignità e alla personalità di ciascuno dei suoi componenti.
      Tale premessa è necessaria per dare ragione dei princìpi implicati da un obiettivo di modificazione che si propone di portare a compimento il disegno - già assai ben delineato fin dalla precedente legge di riforma del diritto di famiglia, la legge 19 maggio 1975, n. 151 - di parificare ogni forma di filiazione, nel rispetto dell'articolo 30, terzo comma, della Costituzione.
      Da tempo, nei vari Paesi dell'Unione europea, la tendenza è verso una completa

 

Pag. 2

equiparazione tra tutti i figli senza ulteriori qualificazioni: in Spagna già dal 1978, in Germania e negli altri Paesi del nord Europa ancora prima, in Francia molto più di recente, con una legge che unifica la normativa in materia in un solo capo dedicato allo stato di figlio senza ulteriori aggettivi. E convenzioni europee sui diritti dell'uomo e del fanciullo, raccomandazioni comunitarie, interventi in tale materia della Corte europea dei diritti dell'uomo si susseguono senza sosta, disegnando un unico quadro rispetto al quale l'Italia presenta alcuni tratti divergenti.
      Come è noto, anche nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva dalla legge n. 848 del 1955, sono previste due disposizioni delle quali la famiglia costituisce l'oggetto di tutela: l'articolo 8, che riconosce il diritto al rispetto della vita familiare, e, ancora più importante, l'articolo 12, a norma del quale «Uomini e donne in età adatta hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l'esercizio di tale diritto», ripercorrendo la via tracciata dall'articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 10 dicembre 1948.
      Le decisioni della Corte europea dei diritti dell'uomo tratteggiano la famiglia come organismo che presuppone lo sviluppo della personalità dei suoi componenti, sulla base dei princìpi di pari dignità, di libertà, di eguaglianza e di solidarietà.
      Da qui discende una serie di corollari, tra i quali si possono sicuramente menzionare quelli relativi alla tutela dei figli per se stessi, cioè in quanto individui nati, e alla pari dignità dei figli naturali rispetto ai figli legittimi.
      Non minore importanza può assumere, anche per quanto attiene al nostro ordinamento, la posizione della Corte europea dei diritti dell'uomo in ordine alla parentela naturale. Relativamente ai rapporti tra i figli naturali, è noto come la nostra Corte costituzionale, intervenendo a margine della parziale incostituzionalità dell'articolo 565 del codice civile, abbia dichiarato doversi considerare nella categoria dei chiamati alla successione legittima, in mancanza di altri successibili, e prima dello Stato, i fratelli e le sorelle naturali, riconosciuti o dichiarati.
      Numerose sono le disposizioni relative alla famiglia che, tramite la «Carta di Nizza» (i cui contenuti sono confluiti nella parte II della Costituzione per l'Europa), l'Europa mostra di voler costituzionalizzare: l'articolo II-67 della Costituzione per l'Europa fa riferimento al rispetto della vita privata e della vita familiare, l'articolo II-83 sancisce il diritto alla parità tra uomini e donne, l'articolo II-84 i diritti del minore, l'articolo II-85 i diritti degli anziani, l'articolo II-86 i diritti delle persone con disabilità, mentre l'articolo II-93 enuncia il principio generale in base al quale «è garantita la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale».
      Nel nostro ordinamento, l'articolo 2 della Costituzione appresta la chiave di lettura del fondamento che la Costituzione stessa offre alla famiglia attraverso gli articoli 29, 30 e 31. Gli interessi della famiglia che l'ordinamento garantisce si coniugano con i valori della persona, sia sotto il profilo statico dell'integrità e della dignità, sia sotto quello dinamico dell'armonico sviluppo della personalità. La prospettiva solidaristica impone la ricerca di un criterio di contemperamento dell'esercizio dei diritti fondamentali, o meglio la ricerca dell'«equilibrio delle libertà». In caso di conflitto tra interessi tutti degni di garanzia, a livello costituzionale, la scelta di quello da privilegiare o da sacrificare deve avvenire secondo la precisa gerarchia dei valori dettata dalla Costituzione stessa. Nella famiglia, il principio di solidarietà, che si specifica nella solidarietà familiare, prescrive ancora con maggiore forza di subordinare le categorie dell'avere a quelle dell'essere, ovvero di considerare le situazioni patrimoniali come strumentali alla realizzazione di quelle di natura esistenziale.
      La parificazione di tutte le forme di filiazione, quale che sia la fonte di costituzione del legame giuridico, è conseguenza
 

Pag. 3

diretta dell'impianto costituzionale. Del resto, l'articolo 30 della Costituzione si esprime assai chiaramente in proposito, quando discorre di diritti e doveri dei genitori: qui non vi è spazio per alcuna forma di discriminazione. Va tenuto sempre presente che l'articolo 30, terzo comma, della Costituzione assicura ogni tutela ai figli nati fuori del matrimonio, purché compatibile con la garanzia della famiglia legittima. Questa norma fa parte della trama del Costituente e in essa rinviene il suo vero valore. Il conflitto può sorgere tra coloro che fanno parte della famiglia ristretta, coniuge e figli, poiché questi sono titolari di interessi proporzionali. E il conflitto può riguardare situazioni paritarie, cioè che ricevono eguale protezione dall'ordinamento costituzionale. Il criterio della compatibilità non può tuttavia comportare il sacrificio dei diritti inviolabili della persona: se c'è conflitto, occorre trovare il punto di equilibrio. Cadono in questa prospettiva le giustificazioni di quelle differenze che ancora si possono rinvenire a livello codicistico o di legislazione ordinaria. Del resto, la differenza di status rileva ancora in poche e scarne norme, che spesso svolgono una duplice funzione di tutela sia per i figli nati nel matrimonio sia per quelli che tali non sono.
      È il caso, ad esempio, delle disposizioni che regolano l'ingresso del figlio riconosciuto nella famiglia preesistente di uno dei genitori. Qui la ragione è di non perturbare la coesione di quella specifica famiglia o di non pregiudicare la serenità e lo sviluppo dei figli minori che ne fanno parte: sia quelli già conviventi, sia quelli che si apprestano a entrare nella quotidiana esistenza di quella concreta famiglia. Da ciò, la necessità dei consensi e del controllo del giudice. Non hanno più senso invece le altre differenze legate a una visione ormai da tempo superata di conservazione del patrimonio familiare, che si rinvengono nel regime successorio.
      In una prospettiva che, sulla scorta dell'articolo 30 della Costituzione, tutela la filiazione come valore in sé, originale e non dipendente, nessuna differenza, se non quelle necessarie a regolarne l'accertamento, può derivare dalla fonte del rapporto: un atto volontario, come il matrimonio o il riconoscimento, o autoritativo, come l'accertamento della paternità o della maternità. Anzi, la prospettiva tende al riconoscimento di un unico status filiationis, fondato sui due aspetti della verità biologica e dell'assunzione della responsabilità rispetto al figlio, aspetti entrambi necessariamente presenti a fondare la ratio della disciplina. Ne consegue l'inutilità dell'istituto della legittimazione per susseguente matrimonio o per provvedimento del giudice, di cui si propone l'abrogazione.
      Di più, si ritiene maturo il momento per abbattere l'ultima odiosa mortificante discriminazione nei riguardi dei figli incestuosi, la cui posizione giuridica, in caso di matrimonio putativo, non si può far dipendere dalla buona o mala fede dei genitori. Non così quando si vuole riconoscere un figlio incestuoso consapevolmente generato: qui si giustifica il controllo del giudice sia per la protezione del figlio, sia per la riprovazione sociale di una simile condotta.
      Doveroso appare poi riformare l'istituto della parentela, facendo cadere ogni aggancio all'opinione che ancora si ostina, anche a livello giurisprudenziale, a non ritenere esistente il legame di parentela tra il figlio riconosciuto nato al di fuori del matrimonio e i parenti del genitore. Sotto questo aspetto, il distacco tra il comune sentire e la norma giuridica non potrebbe essere più evidente. Del resto, indici normativi della rilevanza della parentela «naturale» - e l'espressione è ben strana, quasi che ogni forma di parentela non fosse, per l'appunto, «naturale» - sono già presenti nel codice civile e assai significativi: l'articolo 148 non distingue tra i figli quando chiama i nonni a contribuire al loro mantenimento, se i genitori non hanno sufficienti mezzi; né le regole dell'obbligazione alimentare fanno differenze di tal fatta tra ascendenti e discendenti, per fondare i doveri di solidarietà.
      Se unico è lo stato di figlio, fondato sulla verità e sulla responsabilità, medesima
 

Pag. 4

è l'esigenza di superare l'ostacolo dell'assenza o della distruzione delle registrazioni anagrafiche: da qui la proposta di regolare anche per i figli nati fuori del matrimonio la prova fondata sul possesso di stato.
      L'elemento della responsabilità, anche qui senza differenze, si accentua nella disciplina della potestà dei genitori, quando si regola la «cura» del figlio. Il dovere principale rimane quello di dare al figlio assistenza materiale, ma anche amore, attenzione e rispetto. E se nessun legislatore può imporre i sentimenti, però il rispetto si può imporre. E ciò si fa quando si dà spazio all'autodeterminazione del minore dotato di capacità di discernimento in tutte quelle decisioni che, più di altre, influiscono sulla sua persona e sulla sua personalità: frequentazioni, salute, professione religiosa, formazione professionale, ma anche consenso al riconoscimento, al mutamento del cognome e via via enumerando. Ma il rispetto significa anche prevedere come necessario e doveroso l'ascolto del minore in tutte le questioni e i procedimenti che lo riguardano. Le convenzioni internazionali in materia di minori enfatizzano il loro diritto a essere sempre ascoltati in ordine alle decisioni che riguardano la loro vita: il presente disegno di legge si propone di dare piena attuazione a tale previsione e di fare sì che il minore, per quanto possibile, diventi protagonista della propria vita, assumendo sempre più il genitore il compito di sostenerlo in una crescita che sviluppi le sue potenzialità e inclinazioni. Di qui anche la scelta di precisare il significato del termine «potestà», che per la sua derivazione romanistica induce chi lo utilizza a pensare più all'aspetto del potere e della correlativa soggezione che non all'aspetto della responsabilità e della correlativa fiducia.
      Infine, può sembrare di poco momento preoccuparsi di espungere dall'ordinamento ogni riferimento all'origine «legittima» o «naturale», riferimento tradizionalmente carico di significati disdicevoli: e invece questo pare non solo una modesta ma doverosa riparazione di secoli e secoli di discriminazione, ma altresì un'iniziativa ricca di conseguenze promozionali per il definitivo cambio della percezione sociale del fenomeno.
      Il cammino di riforma degli istituti che disciplinano la famiglia, iniziato con il codice del 1942 e giunto a maturazione con la riforma del 1975, non è ancora completo: permangono nella disciplina codicistica antinomie, residui del passato, disposizioni del tutto superate dall'evoluzione dei tempi, la cui esistenza è spesso ignorata dalle persone comuni, il cui sentire diverge in modo assoluto dalla previsione di legge. Il presente disegno di legge ha dunque per fine la piena attuazione dell'articolo 30, primo e terzo comma, della Costituzione, eliminando definitivamente dall'ordinamento ogni traccia, anche lessicale, di ingiustificata difformità di trattamento tra i figli nati nel matrimonio e quelli nati fuori del matrimonio.
      Resta, naturalmente, la distinzione dell'origine, in quanto questa è prevista espressamente dalla Costituzione, che promuove e tutela in maniera peculiare la famiglia fondata sul matrimonio e che subordina la tutela dei figli nati fuori del matrimonio a un giudizio di compatibilità con i diritti dei membri di tale famiglia. Tale origine era un tempo segnata dalla distinzione tra figli legittimi e illegittimi, distinzione ormai da tempo sostituita da quella tra figli legittimi e figli naturali, che il disegno di legge si propone di mutare in quella tra «figli nati nel matrimonio» e «figli nati fuori del matrimonio», utilizzando la definizione scelta dalla Costituzione. Una distinzione che assume rilevanza ogniqualvolta dalla nascita nel matrimonio possano discendere effetti, sia pure esclusivamente morali, ovvero ogniqualvolta serva a far comprendere che una certa persona può essere figlio solo di determinate persone, in quanto venuto al mondo in costanza del loro matrimonio.
      Tutto ciò premesso, è evidente come, accanto all'intervento immediatamente possibile e programmaticamente significativo sul codice civile, la scelta della delega sia quasi imposta dalla considerazione della miriade di disposizioni che si dovranno
 

Pag. 5

toccare, magari anche solo formalmente, compito che renderebbe estremamente difficoltoso il cammino di un disegno di legge che le volesse prevedere tutte.
      L'esame dei singoli articoli del presente disegno di legge è utile per chiarire la portata dell'intervento.
      L'articolo 1 interviene, come anticipato, direttamente sul codice civile, in particolare sostituendo la rubrica del titolo IX del libro primo e spostando il centro dell'attenzione dall'aspetto della potestà dei genitori a quello dei diritti dei figli nell'ambito di quella particolarissima relazione giuridica che lega il genitore al figlio minorenne.
      In conseguenza di tale diverso approccio, viene sostituito l'articolo 315 del codice civile, con la specificazione non più solo dei doveri del figlio, ma, prima ancora, dei suoi diritti nell'ambito della relazione con i genitori e con i parenti in generale.
      A fianco dunque dei doveri classici dei genitori - mantenimento, educazione e istruzione - il nuovo testo dell'articolo 315 pone poi anche l'assistenza morale, affermando il diritto del figlio a crescere con la propria famiglia, quello di avere rapporti con i parenti e quello di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano. Si tratta di modifiche rilevanti, anche se in larga misura anticipate dalla realtà sociale, dai princìpi stabiliti dalla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante «Diritto del minore ad una famiglia» come, significativamente, l'intitolazione originaria è stata sostituita dalla legge 28 marzo 2001, n. 149.
      Il fatto che provvedere alle necessità materiali e di istruzione del figlio non sia sufficiente a soddisfare l'obbligo del genitore e il diritto del figlio è cosa che la pedagogia, la sociologia e la stessa società hanno compreso da molto tempo; fino ad oggi il legislatore non aveva però avuto il coraggio di introdurre l'altro obbligo, quello morale, quello affettivo, nascondendosi dietro l'obiezione, pur fondata, che l'affetto non può imporsi per legge. La formula «assistenza morale», richiamandosi più all'azione che al sentimento, sembra poter ovviare a tale obiezione, pur riuscendo a introdurre nel rapporto genitori-figli un elemento che va oltre gli obblighi materiali, divenendo dovere di prestazione personale.
      Il medesimo articolo 315 si occupa poi del diritto del figlio a esprimersi e ad essere ascoltato nelle questioni e nelle procedure che lo riguardano: si tratta di un esplicito richiamo ai princìpi sanciti da atti internazionali quali la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 e resa esecutiva dalla legge 27 maggio 1991, n. 176, il cui articolo 12 impone agli Stati Parti di garantire al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, e il conseguente diritto a che le sue opinioni siano debitamente prese in considerazione, tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità.
      Il nuovo articolo 315-bis del codice civile chiarisce che lo stato giuridico di tutti i figli è il medesimo e che le disposizioni in tema di filiazione si applicano a tutti i figli, senza distinzioni, a meno che vi siano ragioni per distinguere i figli nati nel matrimonio da quelli nati fuori del matrimonio.
      L'articolo 2 contiene la delega al Governo a intervenire nella materia della filiazione per eliminare ogni residua ingiustificata disparità di trattamento tra i figli nati nel matrimonio e i figli nati fuori del matrimonio o da matrimonio putativo, nel rispetto di quanto previsto nella Carta costituzionale, dei princìpi enunciati all'articolo 1 e da quelli di seguito elencati nel medesimo articolo 2, comma 1.
      La prima conseguenza è individuata dalla lettera a) del comma 1 dell'articolo 2, che prevede l'unificazione dei capi I e II del titolo VII del libro primo del codice civile in un unico titolo rubricato «Dello stato di figlio». L'asse dell'interesse della normativa si sposta dunque dall'acquisto della qualità di figlio legittimo o naturale a quello dello stato di figlio. La distinzione, come si è già detto nella parte generale, resterà soltanto nei casi in cui
 

Pag. 6

l'indicazione dell'origine assuma un significato; scompare in tutti gli altri.
      La medesima lettera a) prevede l'abrogazione dell'istituto della legittimazione per susseguente matrimonio o per provvedimento del giudice, stante la sopravvenuta inutilità di tale istituto.
      La lettera b) del citato comma 1 dell'articolo 2 obbliga il legislatore delegato a fare una ricognizione puntuale di tutte le disposizioni vigenti nelle quali compaiano le espressioni «figlio legittimo» o «filiazione legittima» e «figlio naturale» o «filiazione naturale», con la conseguente necessità di sostituirle, rispettivamente, con quelle di «figlio nato nel matrimonio» e «filiazione nel matrimonio» ovvero di «figlio nato fuori del matrimonio» e «filiazione fuori del matrimonio». È del tutto evidente che si tratta solo di una modifica lessicale, ma è noto che spesso i cambiamenti culturali nascono proprio dai termini che si usano.
      La disposizione sulla ridefinizione della disciplina del possesso di stato [lettera c) del medesimo comma 1 dell'articolo 2] è la conseguenza della sancita unicità dello stato giuridico di figlio. Tale unicità si riflette infatti nell'eguale efficacia probatoria del possesso di stato, anche relativamente alle persone nate fuori del matrimonio. Questa efficacia manifesta la sua piena rilevanza nelle ipotesi di mancanza o distruzione degli atti dello stato civile. Quando poi si tratta di persone che non sono state riconosciute, il possesso di stato supplisce alla mancanza di un formale atto di riconoscimento, in quanto il «fatto» del possesso di stato attesta obiettivamente la reciproca volontà del genitore e del figlio di accettare il rapporto di filiazione. Se, invece, il possesso di stato contrasta con lo stato risultante dagli atti dello stato civile, esso solo non può prevalere su quello stato. La rimozione dello stato formale di filiazione può infatti avere luogo solo a seguito dell'esperimento di un'azione di stato. L'efficacia probatoria del possesso di stato potrà allora essere valutata secondo la regola generale, dando ingresso, se del caso, alla prova genetica.
      La disposizione sulla presunzione di paternità, di cui alla lettera d) del citato comma 1 dell'articolo 2, intende eliminare le incongruenze dell'attuale disciplina codicistica in ordine all'azione di disconoscimento.
      Una volta ammessa la presunzione di paternità con riguardo ai figli nati in costanza di matrimonio (così l'articolo 233 del codice civile), appare ingiustificato differenziarne l'operatività a seconda del momento della nascita. Nell'attuale formulazione del codice civile, il momento della nascita incide sull'esperibilità dell'azione, in quanto questa è ammessa in ogni caso se il figlio è nato nei primi sei mesi dal matrimonio, mentre è limitata se il figlio è nato in un tempo successivo (articolo 235).
      Questa differenziazione ha peraltro perduto la sua primitiva ragion d'essere a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 266 del 21 giugno-6 luglio 2006, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 235, primo comma, numero 3), del codice civile, nella parte in cui, ai fini dell'azione di disconoscimento della paternità, subordina l'esame delle prove genetiche o ematologiche alla previa dimostrazione dell'adulterio della moglie. Questa sentenza ha reso irrilevante l'anteriore accertamento dell'infedeltà coniugale e ha aperto la via all'azione di disconoscimento sulla sola base delle prove genetiche o emobiologiche. La sostanziale liberalizzazione dell'azione rende ragionevole la sua generalizzata esperibilità (ancorché subordinata a requisiti di ammissibilità relativi all'esistenza di un principio di prova) nei confronti del figlio che sia comunque nato durante il matrimonio.
      La disposizione sugli effetti del riconoscimento, di cui alla lettera e) del medesimo comma 1 dell'articolo 2, intende ordinare e modificare tali effetti in conformità al principio dell'identità dello stato giuridico di figlio.
      Va osservato, in primo luogo, che l'acquisizione di questo stato rende il figlio partecipe della famiglia del genitore che lo ha riconosciuto. È questa partecipazione
 

Pag. 7

che occorre prevedere espressamente, sancendo il principio che il figlio riconosciuto è senz'altro parente dei parenti del suo genitore [numero 1)].
      Richiedere l'assenso al riconoscimento da parte del riconoscendo che abbia compiuto quattordici anni - così abbassando il limite d'età ora fissato dall'articolo 250, secondo comma, del codice civile ai sedici anni - risponde all'esigenza di dare spazio all'autonomia del minore, che la legge riconosce già sufficientemente maturo per dare il consenso alla propria adozione, cioè per prendere una decisione non meno importante per la sua vita [numero 2)].
      Il numero 3) prevede un intervento del legislatore delegato in tema di riconoscimento del figlio nato da una relazione incestuosa, sulla linea già tracciata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 494 del 20-28 novembre 2002 a proposito di dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità relativa al figlio nato da una relazione adulterina. Si prevede come necessaria l'autorizzazione giudiziale, quale forma di tutela del figlio stesso nei confronti di un'iniziativa che potrebbe essergli pregiudizievole, esponendolo al pericolo di un grave disagio familiare e sociale. La maggiore età non esclude la necessità dell'autorizzazione giudiziale in considerazione del grave pregiudizio che dal riconoscimento potrebbe derivare ai congiunti della persona riconosciuta.
      Gli effetti del riconoscimento, per quanto attiene all'inserimento del figlio nella famiglia del genitore che lo ha riconosciuto [numero 4)] vanno coordinati con il principio, sancito dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54, che indica come prioritaria la soluzione dell'affidamento condiviso e richiede che i provvedimenti relativi alla prole siano adottati con esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale di essa. Proprio l'interesse del figlio riconosciuto esige che si tenga conto anche dell'interesse del nucleo familiare del genitore con il quale il figlio dovrebbe convivere: interesse del nucleo familiare inevitabilmente correlato all'interesse del figlio, il quale sarebbe pregiudicato dall'inserimento in una famiglia che non lo voglia accogliere. Questi reciproci interessi devono essere salvaguardati quale che sia la natura del nucleo familiare nel quale il genitore vorrebbe inserire il figlio. Da ciò consegue la necessità del consenso dell'altro coniuge o convivente e l'ascolto degli altri figli conviventi, nei termini già esplicitati illustrando il nuovo testo dell'articolo 315, secondo comma, del codice civile.
      In ragione dell'identità dello stato di figlio il divieto di riconoscimento va esteso espressamente a tutti i casi in cui esso contrasti con lo stato di filiazione già acquisito dalla persona che si vorrebbe riconoscere [numero 5)]. Se lo stato di filiazione dipende da un precedente riconoscimento, è necessario che il nuovo riconoscimento sia preceduto dall'impugnazione del primo riconoscimento e il precedente stato sia quindi rimosso mediante sentenza.
      La disposizione di cui alla lettera f) del comma 1 dell'articolo 2 intende introdurre un limite temporale all'impugnazione del riconoscimento, al fine di tutelare la stabilità di un vincolo vissuto e confermato dal possesso di stato protratto nel tempo. Appare però giustificato differenziare questa situazione rispetto a quelle in cui la perpetuità dell'azione trae ragione dall'esigenza di ristabilire la verità occultata da fatti di alterazione dello stato.
      Le disposizioni di cui alle lettere g) e h) del comma 1 dell'articolo 2 sono intese a una ridefinizione delle conseguenze della filiazione, tale da mettere in evidenza l'identità dei diritti e dei doveri dei genitori nei confronti dei figli. L'ufficio in cui si compendiano diritti e doveri dei genitori è per antica tradizione denominato «potestà». Tale denominazione, di origine romana, è stata conservata dal codice civile nella formula della patria potestà, convertita con la riforma del 1975 in potestà dei genitori. Essa evoca l'idea di un istituto incentrato sull'aspetto del potere e della correlativa soggezione. Occorre però prendere atto che il termine «potestà» non corrisponde più alla realtà di un rapporto in cui il momento prevalente è divenuto
 

Pag. 8

quello dei doveri genitoriali, rispetto ai quali i poteri hanno carattere strumentale: si ha il potere educativo per adempiere l'obbligo di educare il figlio; si ha il potere di amministrare i beni del figlio per adempiere l'obbligo di gestire diligentemente il suo patrimonio e così via.
      Altri ordinamenti hanno sostituito l'antico termine con espressioni più idonee a esprimere l'idea di una posizione attribuita in ragione dell'interesse prioritario del figlio. In Germania, ad esempio, la potestà è divenuta cura (Sorge), mentre il regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, ha adottato la locuzione «responsabilità genitoriale».
      Non è dato tuttavia prevedere se gli Stati membri si adegueranno all'indicazione proveniente dalla terminologia del citato regolamento. La Francia, ad esempio, ha voluto mantenere il termine «autorité», in Spagna resta la «patria potestad»: anche nel nostro ordinamento non sembra necessario adottare un nuovo termine, che nel comune linguaggio sarebbe difficilmente recepito e che potrebbe ingenerare l'idea di una delegittimazione del ruolo genitoriale. Appare piuttosto opportuno che il legislatore indichi con chiarezza il contenuto della potestà e ne precisi il significato di ufficio nell'interesse dei figli mettendone in evidenza l'aspetto della responsabilità.
      La disposizione sull'ascolto del minore, di cui alla lettera i) del comma 1 dell'articolo 2, intende richiamare la necessità di reimpostare le procedure attinenti alle materie trattate nel rispetto del principio, stabilito dal nuovo testo dell'articolo 315, secondo comma, del codice civile, dell'ascolto del minore capace di discernimento.
      La disposizione sull'adeguamento della disciplina delle successioni [lettera l) del comma 1 dell'articolo 2] muove dal rilievo che l'identità dello stato di figlio, pur se nato fuori del matrimonio, e la sua partecipazione alla famiglia del genitore reclamano l'eliminazione di ogni discriminazione anche nel campo della successione a causa di morte. L'adeguamento deve rispondere all'idea che la parentela intercorrente tra il figlio nato fuori del matrimonio e i suoi parenti è senz'altro titolo per la successione legittima. Va eliminato anche il diritto che, pur dopo la riforma del 1975, il codice attribuisce ai figli «legittimi» consentendo loro di estromettere dalla comunione ereditaria i figli «naturali». In quanto eguale diritto non sussiste nei confronti dei coeredi estranei, si evidenzia la discriminazione in tal modo sancita a carico dei figli nati fuori del matrimonio.
      Del pari, in tema di donazioni, la norma sulla revoca per sopravvenienza di figli richiede solo un adeguamento terminologico, analogo a quello richiesto per la norma sulla revoca del testamento.
      La lettera m) del comma 1 dell'articolo 2 prevede l'adeguamento e il riordino dei criteri di collegamento che la legge 31 maggio 1995, n. 218, stabilisce a proposito della legge regolatrice della filiazione (articolo 33), legittimazione (articolo 34), riconoscimento di figlio naturale (articolo 35) e rapporti fra adottato e famiglia adottiva (articolo 39), tenendosi presente che la configurazione dei diritti del figlio - quali diritti della persona - richiede un attento vaglio alla luce dei princìpi dell'ordine pubblico internazionale (articolo 16) e dell'eventuale individuazione di norme di applicazione necessaria (articolo 17).
      L'articolo 2, comma 2, completa il quadro degli interventi che il legislatore delegato dovrà operare, innanzitutto con riferimento alle norme per l'attuazione del codice civile, e quindi con riferimento alle altre norme vigenti, quale disposizione di chiusura.
      L'articolo 2, commi 3 e 4, indica la procedura con cui il decreto o i decreti legislativi dovranno essere elaborati, approvati, emanati ed eventualmente corretti. Dalla concorrenza delle competenze di più Ministeri deriva la previsione della coproponenza da parte del Ministro delle politiche per la famiglia, del Ministro della giustizia e del Ministro per i diritti e le pari opportunità.
      Infine, l'articolo 3 prevede l'emanazione di un regolamento volto ad apportare
 

Pag. 9

le modifiche necessarie, conseguenti alla nuova impostazione del regime della filiazione, al regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396.
      Il disegno di legge in esame non comporta nuovi oneri per il bilancio dello Stato. Le modifiche introdotte direttamente al codice civile, infatti, e i princìpi e criteri direttivi dettati in sede di delega non hanno conseguenze di natura finanziaria.